L’ultimo acuto dell’azione climatica di Joe Biden

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Il 19 dicembre scorso gli Stati Uniti hanno annunciato dei nuovi e più ambiziosi “Contributi determinati a livello nazionale” (Nationally determined contributions, Ndc), cioè gli obiettivi climatici che ogni firmatario dell’accordo di Parigi è tenuto a presentare per partecipare al raggiungimento dei target del trattato. Adesso gli Usa si impegnano a ridurre le loro emissioni di gas serra del sessantuno-sessantasei per cento entro il 2035, rispetto ai valori del 2005. 

Si tratta di un obiettivo ben più alto di quello fissato nel 2021, che prevedeva un calo del cinquanta-cinquantadue per cento entro il 2030, e che potrebbe apparire come un disperato colpo di coda da parte dell’attuale amministrazione: il mandato di Joe Biden – un presidente che ha dedicato alla transizione ecologica gran parte della sua agenda – terminerà infatti tra poche settimane e il suo successore, Donald Trump, ha già detto di voler ridimensionare le politiche federali sull’energia pulita e il clima. Tra le altre cose, ha promesso proprio che abbandonerà nuovamente l’accordo di Parigi.

A cosa serve, insomma, alzare l’asticella dell’azione climatica con dei nuovi obiettivi se poi il prossimo presidente non ha intenzione di seguirli, e anzi professa un’idea di energy dominance basata non sulle fonti a zero emissioni ma sui combustibili fossili?

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Secondo l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti riusciranno a ridurre le emissioni della percentuale stabilita anche in tempi di deregulation e drill, baby, drill: merito dell’Inflation reduction act, la legge di stimolo pubblico alla produzione e all’adozione di tecnologie pulite (batterie, pannelli solari, auto elettriche e altro ancora). 

Da Trump ci si aspetta la cancellazione dei fondi non ancora spesi e la revoca di alcuni crediti d’imposta; difficilmente, però, i progetti già partiti verranno toccati. Significa che nei prossimi anni entreranno comunque in funzione tanti parchi rinnovabili che contribuiranno a decarbonizzare la rete elettrica e che apriranno fabbriche che aiuteranno a far scendere i prezzi delle tecnologie pulite.

A due anni dall’entrata in vigore dell’Inflation reduction act (valore: trecentosessantanove miliardi di dollari) sono stati annunciati investimenti privati nell’energia pulita per oltre duecentosessantacinque miliardi: magari non tutti si realizzeranno, ma è probabile che la legge continuerà a trasformare il paesaggio industriale statunitense anche quando Biden non sarà più alla Casa Bianca. Di questa trasformazione, peraltro, stanno beneficiando anche molti stati governati dal Partito repubblicano come la Georgia, dove si sta sviluppando un polo delle batterie.

La scommessa dell’amministrazione Biden, dunque, è che la transizione energetico-industriale dell’America, una volta avviata, proseguirà grazie alle aziende; allo stesso tempo i governatori, anche quelli repubblicani, saranno disincentivati a ostacolare le tecnologie pulite perché portano soldi e lavoro nelle loro contee.

Si spiega così la decisione di alzare gli obiettivi sulle emissioni. Per dirla con le parole di John Podesta, consigliere del presidente sulle politiche climatiche: «Dato che abbiamo implementato una strategia attivata dal governo ma guidata dal settore privato, i nostri investimenti sotto questa amministrazione saranno duraturi e continueranno a dare frutti per la nostra economia e il nostro clima negli anni a venire, permettendoci di fissare un obiettivo ambizioso e raggiungibile per il 2035». Sulla raggiungibilità del target, tuttavia, ci sono dei dubbi, considerato che gli Stati Uniti non sono ben instradati nemmeno per arrivare all’obiettivo precedente, quello sul taglio delle emissioni del cinquanta per cento al 2030.

Al di là della dimensione domestica, dietro all’innalzamento dei contributi all’accordo di Parigi c’è anche una ragione di politica estera. Lo spiega sempre Podesta: «I leader sub-nazionali negli Stati Uniti possono continuare a dimostrare al mondo che la leadership americana in materia di clima è determinata da molto di più della persona seduta nello Studio ovale». 

La capacità di influenzare l’andamento del processo globale di decarbonizzazione è una forma di potere politico a cui Trump ha deciso di rinunciare per concentrarsi su altro. Per il team di Biden è invece uno strumento importante, da preservare: alzare l’asticella dell’impegno sulle emissioni a un mese dalla scadenza del mandato, allora, è un modo per ricordare al mondo che gli Stati Uniti sono presenti, anche se è indubbio che il (secondo) ritiro dal trattato di Parigi farà vacillare la credibilità di Washington.

Il disimpegno comporta il rischio, per l’America, che la Cina colga l’occasione per assumere la guida della diplomazia climatica di fronte alle nazioni in via di sviluppo, rafforzando così la sua postura internazionale. Pechino è già la potenza dominante nella manifattura delle tecnologie pulite, è il Paese con più capacità installata da fonti rinnovabili (anche se fa fatica a mollare il carbone) e ha intenzione di capeggiare pure la governance mondiale della meteorologia, approfittando di un possibile ridimensionamento della National oceanic and atmospheric administration sotto l’amministrazione Trump. La lotta alle emissioni si combatte su un terreno geopolitico.

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